Onorevoli Colleghi! - Nell'anno 2025 metà della popolazione mondiale sarà «a secco». Più di 3 miliardi di esseri umani avranno problemi di approvigionamento idrico. Naturalmente l'acqua mancherà anche alle altre specie con cui dividiamo il pianeta. Il che vuol dire che il ritmo di estinzione aumenterà creando un effetto boomerang: maggiore degrado, minore disponibilità di cibo, riduzione delle aree verdi.
      La previsione è contenuta in un rapporto dell'Istituto delle risorse mondiali presentato a East Lansing, nel Michigan. Nello studio si ricorda che i problemi non si distribuiranno in maniera omogenea: ci saranno aree, generalmente quelle già idricamente ricche, in cui l'acqua diventerà ancora più abbondante e altre in cui avanzerà il deserto.
      Calcolando che quattro persone su dieci vivono in zone in cui l'acqua scarseggia e che queste stesse zone sono quasi sempre le più prolifiche, si comprende come lo scenario indichi una forte accelerazione degli squilibri geopolitici e una crescita dei profughi ambientali.
      Già oggi 67 milioni di persone nel Nord Africa e 145 milioni nel Sahel sono minacciati dalla desertificazione: più di 200 milioni di esseri umani non hanno altra scelta che spostarsi verso le città della costa che, non potendo accoglierli, li spingono ancora più lontano. Nel 2025 il numero dei «profughi ambientali» potrebbe quadruplicare. Una pressione che diventerebbe spaventosa anche nel bacino del Mediterraneo, trasformato in una linea di faglia demografica e ambientale: nel nord la disponibilità di acqua è destinata a crescere (si potrebbe arrivare a 2 mila metri cubi all'anno per abitante, molto più del fabbisogno), nell'area mediterranea si dimezzerà.
      In questo scenario anche l'Italia si troverebbe spaccata in due: il 27 per cento del territorio è già minacciato dall'inaridimento e un italiano su tre non può

 

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aprire i rubinetti con tranquillità (la percentuale sale a oltre il 70 per cento nelle isole). La desertificazione tende ad avanzare in Sicilia, Sardegna, Puglia, Calabria e Basilicata, mentre le alluvioni battono con sempre maggiore insistenza le regioni settentrionali.
      Quello disegnato dall'Istituto delle risorse mondiali è un quadro catastrofico, presentato lo stesso giorno in cui un altro ricercatore americano, Richardson Gill, rendeva pubblica una ricerca sull'uso dell'acqua come fattore chiave dello sviluppo e del declino di intere civiltà. Secondo Richardson Gill, sarebbero stati due secoli di terribile siccità a causare la scomparsa dei Maya in Messico, uccidendo tra i cinque e i dieci milioni di indios: la sopravvivenza della maggior parte delle città dipendeva dalle piogge e dai grandi serbatoi d'acqua che si dovevano riempire ogni anno.
      La teoria si basa sul ritrovamento di enormi croste di solfato di calcio sul fondo dei laghi dello Yucatan, nelle zone vicino a cui vissero le popolazioni maya. In condizioni di elevata siccità l'acqua evapora e il solfato di calcio precipita sul fondo formando delle cappe, la cui consistenza permette di determinare la gravità del problema.
      Ritornando ai giorni nostri, dei 40 mila chilometri cubi di acqua dolce che raggiungono la terra, solo 13.500 sono teoricamente disponibili per l'uso umano: circa 4 mila chilometri cubi ogni anno vengono prelevati per soddisfare i bisogni di una umanità in continua crescita.
      Il 40 per cento della popolazione mondiale, ovvero circa 2 miliardi e 200 milioni di esseri umani, vive oggi in ottanta Paesi classificati come aridi o semiaridi. E la percentuale è destinata a crescere entro la metà del XXI secolo, fino a raggiungere il 65 per cento degli abitanti della terra. Ma non basta: la Banca mondiale ha calcolato che l'acqua di 250 bacini fluviali (dal Nilo al Mekong) è uno dei principali fattori di crisi, fino allo scoppio di conflitti bellici. Il futuro è ancora più inquietante. Le generazioni prossime rischiano di pagare un prezzo altissimo: la domanda di acqua, infatti, raddoppia ogni ventuno anni e le risorse idriche mondiali vengono sfruttate oltre ogni limite di sostenibilità, soprattutto nei Paesi industrializzati. L'inquinamento, infine, determina un progressivo peggioramento della qualità dell'acqua, rendendo spesso indisponibile una risorsa già così gravemente stressata.
      La situazione in Italia, con consumi effettivi di acqua erogata mediamente attorno ai 380 litri (ma con oscillazioni locali anche significative), pur non essendo drammatica come in altre aree del pianeta, non è certo da sottovalutare: negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli eventi alluvionali catastrofici, l'inquinamento dei fiumi e dei laghi non accenna a migliorare, la domanda di acqua, che in alcuni settori sembra finalmente stabilizzata, in altri settori è destinata a crescere e a concentrarsi in aree e periodi svantaggiosi (nel settore turistico, ad esempio, la domanda di acqua potabile è in continua crescita e si concentra nei periodi dell'anno più critici e in aree sfavorite come le isole e le zone costiere).
      Definire, in questo quadro, quale sia l'uso «sostenibile» dell'acqua non è cosa facile. Le dimensioni rilevanti da considerare sono quella ecologica, quella economica e quella sociale.
      Se guardiamo agli aspetti ecologici, il concetto di uso «sostenibile» dell'acqua potrebbe essere interpretato come l'uso che non compromette le potenzialità future e che interferisce il meno possibile con i cicli biogeochimici naturali legati all'acqua.
      L'interferenza si manifesta innanzitutto attraverso lo sfruttamento delle risorse, per cui una parte sempre più consistente della portata dei fiumi e delle falde viene sottratta alla circolazione naturale e portata attraverso tubazioni artificiali in luoghi spesso molto lontani dalla sua origine. Modificando il ciclo dell'acqua, però, si agisce anche sul ciclo sedimentario, perché l'acqua sottratta alla circolazione - e le opere necessarie per sottrarla - comportano una sensibile riduzione dei processi
 

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geomorfologici di erosione e sedimentazione.
      L'uso «sostenibile» di risorse idriche, dunque, è quello che ne sottrae la minor quantità possibile alla circolazione naturale, ne consuma la minima parte e la restituisce il più vicino possibile al punto di prelievo con caratteristiche qualitative più vicine possibile a quelle di partenza.
      Mentre l'idea della sostenibilità ecologica ancora fatica ad entrare nella prassi politico-amministrativa, quella della sostenibilità economica dell'uso dell'acqua è ormai ampiamente recepita anche a livello normativo. Il principio base è il cosiddetto «chi usa (o chi inquina) paga». Secondo questo principio non è scontato che la collettività debba farsi carico di garantire sempre e comunque la disponibilità di acqua per tutti gli usi. Al contrario, gli utilizzatori debbono sobbarcarsi l'onere finanziario della gestione delle acque: dal prelievo alla distribuzione, raccolta e depurazione degli scarichi.
      Il concetto di sviluppo sostenibile e la sua applicazione «politica» sancita dall'Agenda 21 della Conferenza di Rio de Janeiro, concernente, tra l'altro, la lotta contro la desertificazione, ha una forte connotazione sociale: la possibilità di disporre di una sufficiente quantità d'acqua di buona qualità per i propri bisogni è tra i diritti riconosciuti di ogni cittadino.
      In Italia, secondo una stima, utilizzata anche dall'Istituto di ricerca sulle acque (IRSA) del Consiglio nazionale delle ricerche, dei 52 miliardi di metri cubi disponibili con le attuali capacità di regolazione, circa 40 sono effettivamente utilizzati.
      I dati disponibili sui consumi civili sono ancora quelli della rilevazione ISTAT relativi al 1987, da cui si evidenzia un forte aumento del prelievo idrico rispetto al decennio precedente, accompagnato da un peggioramento dell'efficienza della distribuzione. Non esistono dati nazionali relativi agli anni '90, ma un documento dell'IRSA sostiene che la tendenza alla crescita del prelievo idrico per uso civile si è arrestata: i dati della Federgasacqua mostrerebbero una sostanziale stabilizzazione dei prelievi. Se prendiamo ad esempio la città di Roma, alla fine degli anni Novanta il dato sulla stabilizzazione dei prelievi sembrava in effetti confermato: tra il 1988 e il 1997 l'acqua captata è passata da 580 a 550 milioni di metri cubi l'anno. Sulla base dello stesso esempio va rilevato però che l'efficienza non tende a migliorare per tutti gli anni '90: tra il 1988 e il 1997 il differenziale tra l'acqua addotta e l'acqua erogata oscillava costantemente tra il 30 e il 35 per cento. Questa quota non include tutta l'acqua immessa in rete e non fatturata; non include, quindi, le cosiddette «perdite apparenti», come le frodi e gli sfori necessari a mantenere la pressione costante. Le perdite reali ammonterebbero a circa il 20 per cento; d'altra parte, la situazione della distribuzione in molte altre città è presumibilmente peggiore di quella di Roma, per cui un valore del 30 per cento di perdite non sembra lontano dalla media nazionale.
      Sembra difficile concordare con l'IRSA quando afferma che «è da attendersi in futuro, anche per effetto di una politica tariffaria che trasferirà sul consumatore quasi per intero il costo dell'acqua, che anche in Italia si determini a medio e lungo termine una maggiore efficienza dell'acqua nell'uso domestico e negli altri usi connessi alle reti urbane».
      Il miglioramento dell'efficienza nelle reti di distribuzione non dipende, infatti, dalle tariffe pagate dall'utente all'ente gestore, ma dai canoni pagati dall'ente gestore allo Stato: tali canoni sono ancor oggi assolutamente irrisori (circa 0,0005 euro a metro cubo) per giustificare investimenti consistenti come quelli necessari al miglioramento dell'efficienza delle reti.
      Per lo stesso motivo sembra poco probabile, a meno che non si intervenga radicalmente sui canoni, che si diffondano esperienze di razionalizzazione dell'utilizzo agricolo o di riuso delle acque reflue. L'acqua per uso irriguo ha un canone di circa 0,0001 euro a metro cubo: se si considera che i costi di investimento per
 

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realizzare le opere necessarie alle derivazioni d'acqua sono quasi sempre a carico pubblico è evidente come sia preferibile, per un potenziale utilizzatore agricolo, ricorrere ad acque superficiali piuttosto che ad acque usate.
      Con l'approvazione della legge 10 maggio 1976, n. 319, cosiddetta «legge Merli», si è avviata anche in Italia una politica di gestione sostenibile delle risorse idriche. Questa legge ha segnato un punto di discontinuità con una politica che, fino ad allora, aveva guardato alle acque esclusivamente come una risorsa da sfruttare.
      Da allora la cultura della «sostenibilità» ha permeato sempre più profondamente la politica idrica italiana e ha portato all'approvazione di leggi orientate a modificare radicalmente il vecchio approccio «predatorio» alla gestione delle acque, come la legge 18 maggio 1989, n. 183, recante norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo e la legge 5 gennaio 1994, n. 36, recante disposizioni in materia di risorse idriche. Anche il decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, che recepisce le direttive 91/271/CEE e 91/676/CEE, sebbene al di sotto delle aspettative e delle potenzialità, va nella direzione di garantire una sempre maggiore tutela delle acque e degli ecosistemi acquatici.
      La citata legge n. 36 del 1994 ha sancito in maniera probabilmente definitiva l'avvento di una nuova cultura dell'uso dell'acqua, basata sul principio che chi usa (o chi inquina) paga. Questo principio va a sostituirsi ad una prassi consolidata, secondo cui la disponibilità idrica rappresenta un diritto che deve essere soddisfatto comunque, a spese della collettività, che spesso sopporta sia il costo industriale dell'acqua che il costo esterno. Il costo esterno è quello che la collettività deve sopportare per l'impossibilità di soddisfare usi alternativi della risorsa idrica. Fra i costi esterni assume oggi particolare importanza quello ambientale, determinato dalla incapacità del corso d'acqua di mantenere condizioni adatte alla vita acquatica, dall'impatto sul paesaggio dovuto alla permanenza di deflussi scarsi, dall'escursione del livello di invaso nei serbatoi, dall'impatto visivo delle dighe, dal rischio idraulico eccetera.
      Occorre quindi «rifocalizzare» progressivamente la politica delle infrastrutture idriche passando da una logica di soddisfacimento indiscriminato dei fabbisogni ad una logica di mercato, ossia di domanda. Vale a dire, l'utilità di una infrastruttura idrica deve essere misurata sulla base del valore, privato e sociale, che l'infrastruttura genera.
      La politica idrica deve essere coerente con i princìpi dello sviluppo sostenibile e deve essere stabilmente inserita nel quadro, più generale, della politica ambientale affinché siano salvaguardati i diritti delle generazioni future.
      Da questo approccio discendono alcune importanti regole:

          1) non dovrebbero essere realizzate grandi opere di trasferimento di acqua se non dopo avere attentamente soppesato i benefìci economici e sociali con i costi ambientali; eccezioni sono da ammettere forse nei casi in cui venga meno la possibilità di garantire una disponibilità minima certa per gli usi essenziali ma non per sussidiare attività economiche in perdita;

          2) la «politica della domanda» dovrebbe essere perseguita quanto, e forse più, della «politica dell'offerta»;

          3) è necessario «chiudere il cerchio» dei costi e dei benefìci entro un ambito il più possibile locale, con un potenziale ruolo integrativo, e non sostitutivo, per la finanza pubblica.

      L'intervento finanziario dello Stato e della finanza pubblica in genere deve essere residuale e finalizzato a pochi obiettivi strategici. In linea di principio, l'intervento dello Stato deve assumere una funzione residuale, integrativa e incentivante; deve e può darsi l'obiettivo di correggere gli squilibri, ma deve appoggiarsi, anziché sostituirsi, al circuito finanziario

 

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«normale» rappresentato dal meccanismo tariffario.

      Nello stesso tempo, pur senza mettere in discussione un insieme di pratiche di consolidata efficacia, bisogna tuttavia sottolineare che esiste uno spazio insoddisfatto di domanda di tecnologie sviluppate che, se correttamente utilizzate, potrebbero portare consistenti benefìci. Con la presente proposta di legge si intende stimolare comportamenti virtuosi tali da garantire alle generazioni future un patrimonio insostituibile per la vita: l'acqua.
 

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